È cominciato da qualche giorno il Giro d’Italia.
Come ogni anno, da oltre un secolo, si aggira sulle strade interne di un’Italia sempre da scoprire, una coloratissima carovana di macchine, moto e, soprattutto, di agilissime biciclette, con in sella omini ricurvi, vestiti dei colori e delle scritte più fantasiose, che si arrampicano sulle montagne e sfrecciano a sfidare il vento e la fatica in discesa ed in pianura.
Tutti a rincorrere una vittoria di tappa, o almeno un buon piazzamento; ed a sognare di vestire, almeno per un giorno, la sospirata maglia rosa.
E noi bambini a fantasticare con loro; ed a parteggiare per il nostro campione, che aveva sempre un rivale all’altezza, per cui ci si poteva dividere tranquillamente nel tifo, senza temere mai il confronto con gli avversari.
Ai quei tempi, più che per la radio o la televisione (che ancora in pochi avevano), le tifoserie erano divise dalla comunicazione che si riceveva dalle figurine della Panini.
E noi in quegli anni ci dividevamo a sostenere, con pari ardore, Felice Gimondi o Vittorio Adorni, che reincarnavano l’epico dualismo di Bartali e Coppi, prima che Eddy Merckx , il cannibale, mettesse tutti d’accordo, mortificando le velleità di qualsiasi avversario. Ci piaceva anche Vito Taccone, il camoscio d’Abruzzo, un corridore dalla faccia meridionale che vinceva poco, ma stava simpatico a tutti; un po’ come oggi il nostro Domenico Pozzovivo.
Vito Taccone, il camoscio d’Abruzzo, sulle strade del Giro d’Italia
Non erano molte le occasioni di assistere al passaggio del Giro: non viene spesso al Sud e raramente passa da queste parti.
Un anno però (doveva essere fine anni sessanta del secolo scorso) la carovana rosa doveva passare per Brienza. Un gruppo di ragazzini di Sasso ci organizzammo in tempo per non perdere l’appuntamento. Studiammo meticolosamente, sulle immancabili figurine Panini, le facce dei corridori che pensavamo partecipassero al giro, per poi poterli riconoscere ed acclamare dal vivo.
Scendemmo a piedi, in grande anticipo e ci andammo a sistemare in una curva (dove eravamo sicuri che dovessero per forza rallentare), un poco fuori dell’allora abitato di Brienza, davanti all’attuale albergo Imperial, sulla strada che mena ad Atena; e rimanemmo lì per diverse ore, sotto il sole, a ripassarci i nomi dei corridori e a litigarci su chi era il più forte.
Quando però passarono i corridori, seppur preceduti da macchine e moto che ne annunciavano l’arrivo imminente, la concitazione e l’entusiasmo di tutti gli astanti e la velocità inaspettata con cui sfrecciarono i ciclisti, creò tale confusione che noi non riuscimmo a riconoscerne nemmeno uno.
Nemmeno la maglia rosa: ce lo confessammo mestamente dopo, sulla via del ritorno da Brienza a Sasso, ripercorsa rigorosamente a piedi.
Un episodio più curioso e simpatico, accaduto in quello che immagino sia stato l’unico passaggio del Giro d’Italia per Castelgrande, ce lo lasciamo raccontare dalla penna di Alberto Muro.
Giro d’Italia
Un castelgrandese solo al comando
Il suo nome è…
Quel ventitré maggio del 1971 era davvero una radiosa domenica; nulla a che vedere con le nefaste e nefande giornate di circa cinquant’anni prima.
Quel giorno, nientepopodimeno, transitava da Castelgrande il giro d’Italia che quell’anno si correva dal 20 maggio al 10 giugno per un totale di 3567 km. Si trattava della terza tappa lunga 177 km che da Potenza portava la carovana colorata a Benevento.
Con Don Vito Troiano, stipati come non mai nella sua macchina, dopo una messa alquanto veloce, raggiungemmo Palazzulo. Quando vi giungemmo, trovammo già numerosi tifosi sistematisi sul valico ad oltre 1150 metri sul livello del mare.
Proprio sul traguardo, un ragazzino, all’incirca della nostra stessa età, alzava un cartello con su scritto “ FORZA MOTTA”. Huè! Chi è costui? pensammo, noi siamo tifosi di Gimondi.
Sul finire degli anni settanta del ‘900 tutti ci inorgoglimmo nell’apprendere che al Giro partecipava un “castelgrandese”. In verità, Francesco MASI, così si chiamava, era nato e cresciuto in Piemonte, ma il fatto che i suoi genitori fossero nati a Castelgrandefece sì che moltissimi, anche vecchi, si recassero a Potenza per applaudirlo.
La prima “partecipazione” di un Castelgrandese alla “corsa rosa”, risale, però, al 1971, appunto. Proprio a Palazzulo era fissato il traguardo del gran premio della montagna di quella tappa. La folla era tanta che qualcuno, più ardimentoso, si era spinto fin sopra i”Pëzzunë” che dominano tutta la zona del traguardo e la valle sottostante. Da quel punto di vista privilegiato, i più attenti scorsero qualcosa in lontananza. Subito ad urlare: “arrivano, arrivano. No, no! È uno solo”.
Per qualche istante rimanemmo in silenzio a chiederci, chi sarà? Tutti speravamo che fosse il nostro beniamino il protagonista di quella impresa. Passato il primo istante di emozione tutti ci rimettemmo a gridare e a sventolare i cartelli col nome dei nostri eroi.
Ancora il silenzio scese tra di noi quando le vedette ci avvertirono che al comando della tappa c’era un uomo solo, ma solo per davvero. Non una pattuglia della polizia stradale, non una macchina a seguire e guidare lungo i tornanti della nostra statale APPIA il fuggitivo. Lo scatto doveva essere stato tanto fulmineo da aver sorpreso proprio tutti. Manco il tempo di riflettere sulla stranezza della vicenda cui stavamo assistendo, che un’altra meraviglia, ancora più incredibile, si aggiunse alle meraviglie che già stavamo vivendo: in fuga e da sola c’era la maglia rosa.
Roba da non credere! La maglia rosa in fuga senza che nessuno se ne fosse accorto.
Mentre tutti commentavamo quanto stava accadendo ed ascoltavamo i più grandi e , quindi, anche più esperti, che cercavano di capire chi potesse essere il ciclista capace di cotanta impresa, il protagonista assoluto di quella radiosa domenica si avvicinava, intanto, al traguardo del Gran Premio della Montagna.
La sorpresa cominciò a lasciare spazio alla incredulità quando ci accorgemmo che in fuga c’era sì un ciclista in maglia rosa, ma, invece che il nome dello sponsor, sulla maglietta era stampata l’effigie di Felice Gimondi con la scritta “Forza Gimondi”. I pantaloncini non erano pantaloncini da ciclista, ma normali pantaloni arrotolati fin sopra le ginocchia a la zombafuossë.
Anche le forze dell’ordine in un primo momento furono sorprese da quel singolarissimo ciclista, sicuramente qualcosa non quadrava.
Non era, infatti, un corridore professionista; si trattava, invece, di quel burlone ci Ciccë la scienzë , al secolo Gerardo De Mito che , a suo modo, aveva voluto rendere indimenticabile per noi una tappa del giro d’Italia altrimenti anonima.
Per tutti, alla fine di quella bellissima giornata, rimase un solo rammarico; i carabinieri, riconosciutolo, gli avevano impedito di tagliare il traguardo bloccandolo pochi metri prima.