A metà degli anni sessanta del ventesimo secolo, l’unico boom che si era visto a Castelgrande era quello dell’emigrazione. Del boom economico nessuno sapeva niente e il cosiddetto boom demografico non aveva alterato più di tanto l’andamento delle nascite che erano sempre state numerose.
In ogni casa, almeno una persona era lontana per ragioni di lavoro. Il nord Italia non era molto attrattivo e si emigrava all’estero: in nord Europa o, addirittura, oltre oceano.
Casa mia non faceva eccezione, anzi. Sia mia madre che mio padre erano in Svizzera per lavoro e, si sa, all’epoca la Confederazione Elvetica aveva bisogno di braccia e non di uomini. Indi ragion per cui ai bambini non era consentito seguire i genitori in Svizzera e venivano lasciati in Italia al seguito di nonni e/o zii e zie.
Fu per questi motivi che una sera della vigilia di San Vito mi ritrovai a rë Toppë alla masseria che mia zia Maria e suo marito zio Gerardo Colucci avevano in fitto. L’attesa per la festa dell’indomani si leggeva negli occhi di tutti; non bisognava far tardi, i festeggiamenti in onore del Santo Patrono di Castelgrande cominciano nel tardo pomeriggio della vigilia e zio Gerardo, membro della Congrega, non poteva mancare.
Io, già mi vedevo insieme agli altri procedere lungo i tratturi che mi separavano dalla festa camminare quasi senza sfiorare il terreno. Nelle mie orecchie già la musica si faceva sentire e mi immaginavo, impettito ed estasiato, ad ascoltare la banda. La fantasia faceva il suo corso ed io mi sentivoprotagonista di non so che cosa nel mentre tutto curioso mi sorprendevo a rubare con gli occhi i giocattoli che, numerosi, stavano sulle bancarelle.
Restai molto deluso e amareggiato quando scoprii che, quella sera, sarei rimasto alla masseria per fare compagnia a mio cugino Francesco che all’indomani mattina, prima di rientrare in paese, avrebbe dovuto portare al pascolo lë ciuccë.
Che diamine, lo sapevano tutti che le nocelline appese si potevano ammirare anche la vigilia e non solo il dì di festa, quel benedetto asino non poteva accontentarsi di un po’ di fieno e starsene tranquillo nella stalla per un giorno? Non ci fu verso di far cambiare idea ai grandi, l’asino era importante e andava trattato con tutti i riguardi.
Quella notte mi sembrò lunga quanto non mai; l’alba, che in altre occasioni era sopraggiunta sempre troppo velocemente, tardava a farsi strada nel buio della notte e quando i primi bagliori del nuovo giorno, quello della festa,appena cominciarono ad intravedersi dietro i monti, Francesco lesto saltò giù dal letto e corse fuori per portare l’asino giù al “ Cannito” a mangiare l’erba fresca.
“Non muoverti, non uscire, io torno presto”, furono le sue raccomandazioni prima di allontanarsi in quell’alba che appena si intravedeva.
Io, ubbidiente, restai nella lëttèrë per un tempo che a me parve lunghissimo e, in men che non si dica, le lenzuola che quel letto non aveva si fecero infuocate: quanto mangia ‘sto ciuccio, perché non tornano? Rimurginavo tra me e me.
Per distrarmi e far passare più in fretta il tempo, ripercorsi con la mente un accadimento che, qualche tempo prima, in quello stesso posto, aveva visto protagonisti me, mio cugino e Francesco di Modestino. I due, ben più grandi di me, un giorno decisero di cucinare un po’ di carne, bisognava, però, procurarsela. Ammazzare una gallina senza il permesso dei grandi? Manco a pensarci, le galline erano contate, non si potevano toccare. La scelta, ahi loro, cadde sui gattini che stavano lì alla masseria per contenere l’invadenza dei topi. Forse, avevano fiutato che qualcosa non andava quel giorno e acchiapparne uno non fu facile. Ricordo che, dopo vari appostamenti e un breve inseguimento, li raggiungemmo nel fienile che stava sopra la masseria e con una forca i due prodi, miei compagni d’avventura, riuscirono ad infilzarne uno.Dopo aver mangiato, anziché disfarsi della pelle del malcapitato, pensarono di metterla al sole ad essiccare sfruttando una tecnica in uso presso i macellai per la conservazione delle pelli degli agnelli. Si trattava, è vero, di un gattino e non di una gallina, ma le ire di zio Gerardo non mancarono; solo io, pur avendo partecipato con particolare soddisfazione al convivio, ne uscii indenne, ero troppo piccolo e non centravo niente con quel crimine efferato.
Avevo esaurito anche la galleria dei ricordi, ma dell’asino e di Francesco nessuna traccia. Decisi, allora, che era tempo di levarmi dal letto. La contrada del Cannito si trova a valle del poggio ove era appollaiata la nostra masseria, in direzione del lago di Saetta; salii sull’aia per vedere se giù in quella direzione, si vedessero i “due”, niente. Tornai giù per sedermi davanti alla porta della masseria ad aspettare; in quel momento una chioccia, con al seguito la sua numerosa prole, attraverso un buco che stava sul lato della porta proprio per consentire alle galline di entrare ed uscire dalla stalla anche con la porta chiusa, stava uscendo per dare il via alla sua giornata che, notoriamente, inizia molto presto.
Visto che di quel perdigiorno di mio cugino e del suo quadrupede compagno non avevo più notizie, decisi, tanto per perdere un po’ di tempo, di catturare un pulcino. Riuscii adacchiapparne uno nonostante la reazione alquanto violenta della madre. Che esagerazione, non volevo mica fare del male al suo piccolo, volevo solo tenerlo un po’ con me.
Lo trattenevo con cura e delicatezza tra le mie mani. Il poverino, pur ignaro del destino che lo attendeva di lì a poco, non era, però, per niente d’accordo, non gradiva la mia compagnia e tentava in tutti i modi di liberarsi per tornare libero e raggiungere gli altri suoi compagni di nidiata.
Col mio nuovo compagno tra le mani tornai verso la porta della masseria per sedermi su una pietra che stava appoggiata al muro a mo’ di panca. Mi sistemai lì, abbastanza spazientito, vista l’attesa che, a mio modo di vedere, si prolungava a dismisura, quando la mia attenzione fu attirata da un piccolo recipiente di pietra incavato ad arte per ricavarne un contenitore ove far bere le galline.
“Quasi quasi ti faccio un bagno”, dissi al mio amico pennuto e mi avvicinai al piccolo vavëtieɖɖë dove stava l’acqua per le galline. Lo immersi piano piano, con tutta l’attenzione di questo mondo e, improvvisamente, il poverino smise di dimenarsi, non tentava più di liberarsi, stava tra le mie mani completamente inanimato.
Cosa poteva essere successo?, non gli avevo fatto proprio niente, volevo solo lavarlo, lo avevo immerso nell’acqua solo per un attimo. Ogni tentativo di rianimarlo fu vano, non c’era più niente da fare, era morto lasciandomi nel panico più cupo: “… e adesso? …che faccio?…”. Avrei potuto far finta di niente, mancava un pulcino? e che ne sapevo io, ero ancora a letto a dormire.
Invece, la paura circa le conseguenze di quell’insolito bagno mi prese e per giunta mio cuginoera svanito nel nulla; decisi, allora, di scappare in paese, ero piccolo e Castelgrande era lontano diversi chilometri ma quella strada la conoscevo a memoria non rischiavo di perdermi.
Lungo la strada non incontrai nessuno, nessuno dalle masserie che via via superai notò un viandante così piccolo che correva tutto solo verso il paese. Giunsi, così, in prossimità di San Vito, al Pisciolo, e da lì scorsi in lontananza i carri degli “zingari” che come ogni anno erano venuti per la nostra festa.
Gli zingari. Lo sapevano anche le pietre che questi rapivano i bambini, negli anni passati, non a Castelgrande ma in paesi lontani, era già successo.
Il cuore cominciò a battermi fino in gola, quatto quatto, strisciando lungo la cunetta della strada mi avvicinai. Ormai di fronte a me stava solo lo spiazzo di San Vito occupato dalla carovana di quel popolo nomade che tanta paura faceva a tutti i bambini. Dovevo uscire allo scoperto se volevo tornare a casa e raccontare quanto era accaduto a rë Toppë. Lo feci, percorsi lo spiazzo che mi separava dalla salvezza con una corsa, proseguii, sempre correndo, su per le scale della Portanova e giunsi col cuore in gola a casa di mia zia.
Tutti furono sorpresi di vedermi lì e da solo, per giunta. In un attimo riferii delle mie avventure e mentre in cuor mio mi sentivo un piccolo uomo, capace da solo di superare lo scoglio rappresentato dagli zingari che numerosi erano a San Vito, due schiaffi di mia nonna Vittoria mi riportarono alla realtà: “che hai combinato? Stë brëandë !”, disse e immediatamente si avviò in direzione Toppo per avvisare e rassicurare quanti a quell’ora, sicuramente, mi cercavano.
Mio cugino, frattanto, era tornato alla masseria per raggiungere, insieme a me, il paese e partecipare alla festa. Non trovandomi, si preoccupò assai, chiese mie notizie in giro per le altre masserie ma nessuno fu in grado di aiutarlo.
Dopo aver perlustrato tutta la contrada ed aver ispezionato, con particolare attenzione, i pozzi che ivi si trovavano decise, con i suoi compagni di ricerca, di far ritorno a Castelgrande e riferire della mia scomparsa, probabilmente anche tragica.
Lungo la strada, in contrada Salice, incrociarono mia nonna che si stava affrettando a raggiungere rë Toppë per avvisarli che ero già in paese sano e salvo. Riferì quanto io avevo detto e fatto e tutti tirarono un sospiro di sollievo. Qualcuno, sicuramente, pensò che i due schiaffi che avevo ricevuto da mia nonna erano pochi; intanto, però, tutti poterono tornare a casa e godersi la festa.
Del resto della giornata non ricordo nulla, probabilmente, dopo aver tenuto il broncio per un bel po’, ero andato a San Vito, sicuramente non da solo.
Come sapevo stare imbronciato io per ore non lo sapeva fare nessuno, forse, solo mio padre che da bambino era noto nella sua famiglia per la risposta, sempre la stessa, che dava a chi osava chiedergli perchè piangesse: “ Aggia chiangë e bastë!”.